Basaglia, Franco |
F. Basaglia (1924-1980), nato a Venezia, cresce serenamente in una famiglia agiata fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Quando, nel 1943, si iscrive alla facoltà di Medicina-chirurgia dell'Università di Padova, si lega a un gruppo di giovani antifascisti e viene anche arrestato e detenuto per sei mesi a causa di una delazione. L'esperienza della prigione lo segnerà per la vita. Da più parti si è sostenuto che l'opera di Basaglia sarebbe come spezzata in due tronconi: da un lato, quello dello psichiatra fenomenologo, dall'altro, quello dello psichiatra sociale. Forse che è esistito un primo Basaglia teorico, a fronte di un secondo Basaglia pratico ? Questa partizione non può reggere a un sereno esame dei fatti e dei testi. Certo, dopo il 1966, i riferimenti espliciti alla fenomenologia diventano rari e Basaglia cessa di produrre studi di psicopatologia con il rigore metodologico del fenomenologo. Tuttavia, per lui la radice del pensiero di Husserl non si addiceva solo all'indagine delle strutture sottostanti le manifestazioni di esistenze malate; era, piuttosto, una «via» - un methodos - per affrontare la realtà, se stessi e gli altri. C'è quindi persistenza e non soluzione di continuità: la fenomenologia è al lavoro in tutta l'opera di Basaglia, almeno per quanto concerne tre temi non secondari: l'esercizio dell'epoché, la concezione del corpo e quella della cura. Tutto comincia all'Università di Padova, quando Basaglia ha quasi trent'anni. Non erano molti gli psichiatri a essere insoddisfatti dei modelli positivistici ottocenteschi: insieme a pochi altri (F. Barison, D. Cargnello, B. Callieri) è alla ricerca di un'alternativa e la trova nella fenomenologia. Le letture si susseguono vorticosamente e man mano Basaglia scopre e si impossessa di L. Binswanger, E. Minkowski, E. Straus, E. Husserl, M. Heidegger, J.-P. Sartre, M. Merleau-Ponty. La malattia mentale viene come trasfigurata, ma Basaglia ne assorbe l'humus più nutriente. Come per Husserl, anche per lui la fenomenologia è la scienza del primo inizio. Contro le scienze positivistiche, che cercano essenzialmente di verificare un'ipotesi precostituita, la fenomenologia non può e non vuole presupporre niente, perché è una scienza del fondamento. Ogni presupposto deve essere scartato per cogliere il fenomeno nel suo essere tale, allo stato nascente. La fenomenologia non può essere concepita al di fuori del suo metodo e il metodo di Husserl è l'epoché. E mediante questa che ogni problematizzazione fenomenologica può e deve iniziare: l’epoché sospende la tesi sulla realtà del mondo. Il primo atto di epoché - di « sospensione del giudizio» - è servito a Basaglia per scompaginare la psicopatologia positivistica, cioè per riportare il problema della malattia mentale all'interno di una visione globale dell'uomo. Tuttavia, quando comincia il suo lavoro in ospedale psichiatrico, con i poteri del direttore, inizia a parlare della necessità di una seconda epoché, vale a dire, di un'uscita dal ristretto ambito scientifico, per arrivare a una concezione della malattia mentale inserita prima in un ambito socioculturale e poi direttamente politico. La tematica del corpo aveva avvinto Basaglia fin dagli anni giovanili: era letteralmente ossessionato da ogni forma di oggettivazione fisica e ha anticipato le riflessioni sulla «nuda vita». In ogni suo testo mette in rilievo il risultato del dominio sui corpi e, allo stesso tempo, la necessità della loro liberazione. A contatto col corpo lo psichiatra non può fare a meno di affrontare l'enigma della soggettività, dovendo imporre e costruire, nel corpo del malato, la conferma delle proprie ipotesi. Tuttavia, il corpo non dovrebbe essere sentito come ostacolo da superare, piuttosto come vincolo che immette nel mondo: organo per scelte di libertà. Nell'istituzione psichiatrica il tema della corporeità è presente come un elemento di continuità in tutta la riflessione di Basaglia: senza questa attenzione alla relazione tra i corpi all'interno del «corpo istituzionale», il suo pensiero di trasformazione e di negazione del manicomio sarebbe inimmaginabile e privo della sua nota caratteristica. Basaglia ha iniziato il suo itinerario col voler mostrare una concezione forte della persona umana, nella quale la libera espressione della soggettività sottintende la necessità di evitare una distinzione a priori tra ontologia e antropologia, a favore di un'analisi esistenziale che fa perno sull'incontro con l'esistenza concreta, non tralasciando di individuare il nesso tra autorità e libertà nell'emergere della psichiatria nella sua dimensione disciplinare e terapeutico-assistenziale. In questo contesto, il rapporto medico-paziente viene ad essere il centro attorno al quale ruota tutta l'elaborazione basagliana. Lo spazio aperto dall'epoché indica il tradimento fedele perpetrato da Basaglia nei confronti della fenomenologia: insoddisfatto della «messa tra parentesi della malattia», perché voleva incontrare l'uomo delirante e non limitarsi a comprendere la struttura del delirio; impensierito dalla «messa tra parentesi dell'istituzione manicomiale», perché temeva che la «comunità terapeutica» potesse essere concepita come la soluzione della gestione sociale della malattia mentale; rimaneva però l'intenzione radicale di tenere aperte le contraddizioni. Spingendo sempre più avanti la domanda: «che cos'è la follia?», Basaglia alza la posta in gioco fino a perdere l'identità dello psichiatra: il suo passo inesorabile è rischioso perché traccia il cammino di un sapere verso un'uscita che non è garantita. Basaglia si congeda dalla fenomenologia, in realtà restandole fedele, nel momento in cui si immerge in quel terreno improbabile in cui non si dà conoscenza senza esperienza. Basaglia si è completamente identificato con la concezione dialettica della realtà: la dialettica ha rappresentato per lui la forza di opposizione alle molteplici espressioni della falsa coscienza. Nulla lo faceva reagire energicamente quanto il manifestarsi di raggiri ideologici che rendono opaca la realtà e inducono a confonderla con l'apparenza. Le ascendenze filosofiche che hanno reso possibile il percorso sono quelle di Hegel, Marx, Sartre, Merleau-Ponty, Adorno. L'itinerario di Basaglia verso la dialettica non è stato rettilineo: è partito da Hegel (dialettica servo/signore), ma non per arrivare a Marx. Al marxismo (corpo organico / corpo economico) arriva piuttosto attraverso Sartre (individuo/organizzazione) e Adorno (sapere/potere), con l'influenza persistente di Merleau-Ponty (corpo / corpo proprio). Le coppie dialettiche vivificate dalla forza del pensiero e dall'esperienza di Basaglia sono state molte: tutte generatrici di quelle contraddizioni attraverso le quali riteneva di poter vincere l'inerzia mortale delle istituzioni, della malattia, del dominio del sapere. Non pensava e non agiva che per opposizione: aveva un intuito straordinario per scorgere sempre l'altro polo dialettico della realtà. Era l'unico modo che conosceva per far prevalere, in ogni circostanza, la vita: lotta disperata e disperante, data la sua consapevolezza intorno alla forza annichilente della morte. Basaglia ha sperimentato su se stesso, sui malati, nell'istituzione, nella società, la fragilissima esperienza corporea; così necessaria, ma anche così esposta a ogni genere di negazione e di stupro. E lecito affermare che tutta la sua vita è stata caratterizzata proprio dalla lotta contro l'opacità del corpo, contro l'identificazione del corpo proprio con la pura materialità impenetrabile. E se si perde la possibilità di porsi col corpo proprio dialetticamente di fronte all'altro e al mondo, viene impedita ogni contestazione del reale, che può costituire la base su cui si edifica l'esperienza. La perdita della soggettività, come conseguenza della negazione del corpo, fa si che Basaglia passi dal terreno specifico della psicopatologia a quello dell'istituzione, che è ancora specifico, ma nel quale risulta evidente il conflitto tra sapere e potere, per giungere infine alla società, nella quale i meccanismi alienanti fanno esplodere contemporaneamente tutte le contraddizioni, nell'ultimo sforzo di ridurre ciascun uomo a mero corpo economico. Sembra evidente che il passaggio dell'analisi da un «corpo fenomenologico» a un «corpo marxiano» non costituisca per Basaglia un'alternativa, ma piuttosto un ampliamento di orizzonte per comprendere meglio i meccanismi di negazione della soggettività e del corpo. Una volta entrato nell'Ospedale psichiatrico di Gorizia, Basaglia ha dovuto subito trasferire il suo sguardo fenomenologico al «corpo istituzionale». Vi è stato costretto dalla violenza perpetrata sui corpi degli internati, dall'inerzia e dalla ripetitività fatali. Qui ha veramente esperito quanto sia pervasiva la contraddizione tra la vita e la morte: è con la morte negli occhi che ha cominciato a dare spallate per aprire un varco nella vita. La sua decisione e la sua azione sono nate dalla scissione, dal dolore infinito della lacerazione. Se non avesse avuto la morte addosso nel manicomio di Gorizia, chissà quale strada avrebbe preso la sua forza di resistere al reale: è stata la vista di quei corpi sofferenti, abbandonati, a suscitare in modo insopportabile la domanda intorno alla dignità del vivere di ciascuno e la volontà di ricerca di un senso nuovo. Egli ha rivelato il vero volto delle istituzioni della violenza e della tolleranza: un'opera di civiltà di incalcolabile valore. Qui interessa mettere in rilievo la sua capacità di descrizione di due meccanismi tra loro collegati, che rendono efficace il funzionamento istituzionale a tutti i livelli di relazione: si tratta della regressione istituzionale e dell'identificazione con l'istituzione. Basaglia offre l'immagine di un internato che è mortificato e che immola se stesso, grazie a un processo di introiezione, in sacrificio sull'altare delle regole istituzionali. E’ un malato del quale non può essere ascoltata la voce, perché l'unica voce che si sente è quella del medico e, con essa, tutto il rumore degli ingranaggi istituzionali. Se l'uomo malato, nel suo libero porsi nel mondo, fosse posto in situazione da un altrettanto libero atto del medico, significherebbe che quest'ultimo, finalmente, si sarebbe assunto responsabilmente il rischio e il peso di una relazione autentica col malato. Si tratterebbe del rovesciamento della situazione denunciata da Basaglia nel 1964 e che fino all'ultimo non ha mai smesso di ripetere. La forza degli psichiatri che impedisce alla forza della follia di esprimersi è l'elemento che fa si che i malati non trovino un luogo per sé e, in un disperato tentativo di salvare se stessi dalla morte, si identifichino nell'istituzione che li aggredisce. Quando inizia la sperimentazione della comunità terapeutica, Basaglia entra in crisi nel suo ruolo di psichiatra. Va sottolineato che è lui a entrare in crisi, non la corporazione degli psichiatri: egli indica un problema che ha le sue origini nell'esperienza individuale, non ancora partecipata da nessuno. E lui, non gli psichiatri, a scoprire di essere un ingranaggio del processo di esclusione del malato di mente. A questo punto scopre che il mandato della cura è una finzione: non resta da fare altro che distruggere l'ospedale e ricondurre il problema della psichiatria a un livello politico più generale. Ma non è possibile cogliere questo obiettivo attraverso lo sforzo individuale di un singolo tecnico-professionista; ci vuole il concorso di molte intenzioni: quelle degli amministratori, delle forze sociali e politiche, delle famiglie dei malati. Nel momento in cui Basaglia si rende conto che non può farcela da solo, coglie in pieno quella che in seguito verrà definita la «crisi degli intellettuali»: rifacendosi soprattutto a Sartre («tecnico del sapere pratico»), A. Gramsci («intellettuale come funzionario del consenso» contrapposto all'« intellettuale organico») e M. Foucault («intellettuale specifico»), accenna e poi insiste su questa figura di intellettuale dimezzato che non può fare altro che mettere al servizio del dominio il suo sapere specifico. Sembra una questione di poco conto, ma Basaglia ha indicato niente meno che la possibilità di una psichiatria esercitata da psichiatri disarcionati dal proprio luogo e dalla propria scienza. Come sia riuscito a far sì che professionisti sempre più numerosi accettassero di perdere la propria identità professionale, il proprio ruolo sociale e, in parte, il proprio potere riconosciuto, non si può facilmente comprendere se non ricorrendo alla particolare congiuntura storica: il concilio Vaticano II appena concluso, con la sua insistenza sull'impegno e sulla giustizia sociale; il movimento studentesco che aveva mandato alle ortiche ogni paludamento accademico; una generale aspirazione a criticare l'esistente sulla base di una scelta di solidarietà con i più bisognosi. Molti psichiatri e molti studenti di medicina hanno deciso di partecipare al gioco di essere disciplinarmente modesti, pur di far parte delle contraddizioni, certamente rischiose, ma ricche di domande e di intelligenza. In Italia c'erano stati, come in Francia e altrove, esempi di intellettuali impegnati, che voleva dire non astratti e legati al sociale: ma Basaglia ha stabilito un tipo particolare di intellettuale impegnato, quello senza rete. Il suo, infatti, era un ingranaggio che non prevedeva facili via di fuga: una volta dentro la lotta per la trasformazione istituzionale, si diventava «intellettuali organici». Assumendo una nuova responsabilità, e criticando il proprio ruolo di funzionari del consenso, gli intellettuali cessavano di esistere in quanto impiegati qualificati. Nello specifico, la posizione dello psichiatra rivestiva un particolare valore, perché la modificazione che operava su di sé diventava la spinta per una serie di trasformazioni nelle istituzioni che lo ospitavano. Basaglia era molto esigente: non ha mai coinvolto nessuno a «tempo parziale»; richiedeva un impegno totale perché, in ogni momento, sembrava dover portare sulle spalle il peso del mondo intero e aveva bisogno di aiuto. Comunque, dimostrava sempre di essere responsabile di tutto. Quello dell'anti intellettualismo di Basaglia è diventato quasi un luogo comune: certo, la sua azione è stata soprattutto caratterizzata da una «sperimentazione» di valore storico, più che da una coerente visione teorica; ma a lui interessava essere testimone di un'impresa pratica che riuscisse a convincere che ciò che era ritenuto impossibile era invece realizzabile. Esclusivamente questa sua persuasa «confessione» ha consentito che prevalesse l'istanza etica antimanicomiale di una minoranza. Ma l'attenzione a convincere attraverso l'esperienza pratica non ha mai voluto significare, per Basaglia, allontanarsi dal terreno della riflessione teorica; anzi, per lui ogni azione pratica doveva far scaturire per lo meno brandelli di una nuova teoria, da verificare poi in una successiva azione. In poche parole, mal sopportava le chiacchiere intellettualistiche sul lavoro altrui, ma era convinto della necessità della teoria. Certo, alla fine, pressato da mille incombenze quotidiane, ha tralasciato di elaborare compiutamente il suo pensiero, ma ha mantenuto viva la consapevolezza circa la sua necessità. Il fallimento non è un buon punto di arrivo, ma è un ottimo punto di partenza: è la condizione per un nuovo movimento, per cambiare. Il successo può far traballare. La legge Basaglia per la chiusura dei manicomi è stata indubbiamente un successo; è vero che si è trattato – in politicis - di trovare una soluzione al rischio di un vuoto legislativo, ma il dispositivo che ne è emerso è stato possibile solo a motivo del fatto che il movimento antiistituzionale di Basaglia aveva dimostrato praticamente che si poteva attuare una buona assistenza psichiatrica senza manicomio. Dunque, nel 1978 Basaglia ha vinto: perché, allora, è rimasto perplesso, titubante, perfino critico, di fronte alla vittoria ? Ha pensato, forse, che d'un tratto gli avessero tolto la possibilità di opporsi al reale ? Ciò che era riuscito a evitare, quando temeva che la comunità terapeutica avrebbe potuto essere riassorbita in una morbida riforma, rilanciando con la pratica testarda della «negazione istituzionale», gli è sembrato non più perseguibile, come se non vedesse il modo per tenere aperte le contraddizioni. Da minoranza combattente, all'improvviso, si è reso conto di essere maggioranza vittoriosa: non solo gran parte degli psichiatri sarebbe salita gratis sul carro, ma coloro che lo avevano tirato e spinto, forse, avrebbero preteso un riposo. Ma Basaglia ha sempre avuto bisogno di energia, non di inerzia: la prospettiva di uno svanire delle pratiche antimanicomiali, di un affievolirsi dell'indignazione di fronte allo stigma della sofferenza psichica semplicemente lo atterriva. Ecco allora che Basaglia, nell'ultimo anno che gli restava, non ha smesso di ripetere che la negazione istituzionale, e anche la riforma psichiatrica della legge 180, non erano di per sé sufficienti: era quasi disposto ad abbandonare il suo terreno specifico, pur di non firmare il contratto che avrebbe sancito la sua vittoria alla fine riconosciuta. Basaglia ha percepito la straordinaria importanza civile della legge del 1978: il malato mentale non era più visto come pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo ! Certo, sempre malato, quindi nel circuito assistenziale, ma portatore di diritti che tutti avrebbero dovuto imparare a esigere. Ciononostante, ha avvertito l'esigenza di esprimere un atteggiamento limite, come di critica permanente del suo essere storico: ciò che aveva detto, pensato e fatto lo ha costretto a preoccuparsi che tutto potesse ricomporsi a scapito dei malati e di tutti gli oppressi. A differenza di Basaglia, molti hanno ritenuto che la legge 180 fosse un punto di arrivo e non, invece, quello di partenza per un viaggio molto più lungo: forse, hanno anche sperato di potersi lasciare alle spalle quell'insistente pensiero sulla contraddizione. Non c'è, infatti, niente di più scomodo di un'istanza etica che continuamente riporta l'attenzione sul problema del potere e di come questo si articola col sapere nel mentre si fa relazione con l'altro malato. All'indomani della legge 180 la voce di Basaglia risulta intonata a una solitudine che colpisce; solitudine, del resto, che ha sempre contraddistinto la sua leadership in un grande movimento. STEFANO MISTURA |